La viola ha la voce del rimpianto. Non tanto del violino, così agile e pieno di sé, né del violoncello che si porta dietro il suono del baritono e l’eco di quel suono; è proprio la voce del sentimento del rimpianto. Ho imparato a suonarla da piccolo, sotto la guida di mia madre, che è stata allieva di Paolo Borciani e ha insegnato musica al Peri-Merulo di Reggio Emilia. Prima di imparare le lingue, mi intendevo con tutti quelli che incontravo nei miei viaggi con la lingua della viola, che è una lingua della terra o del cielo. Capite perché non mi separo volentieri dalla mia viola.
Ero già da qualche giorno a bordo del Night Watch, peschereccio oceanico rimodellato a trialberi a vela, dipinto tutto d’azzurro e con le fiancate ricoperte sia da un lato che dall’altro dalla gigantografia della tela di Rembrandt La ronda di notte (De Nachtwacht), appunto.
Avevo messo quasi sei mesi per entrare nella Everspring Europe, una di quelle ONG internazionali che si occupano di ecologia planetaria, proprietaria appunto del Night Watch. Mi ero proposto come giornalista-documentarista e, poiché bisognava essere un po’ tuttofare a bordo, come aiuto cuoco, puntando sulla reputazione della cucina italiana. Nel breve corso di preparazione, avevo dato buona prova di me, e di non soffrire il mal di mare.
Veleggiavamo dunque verso il sud dell’Atlantico. Salvo le brevi soste nei porti africani, la vita a bordo era lenta e languida. Alle cinque della sera, imbandita la tavola, ottenevo notevoli successi con le tagliatelle alla bolognese, i rigatoni all’amatriciana, il risotto al nero di seppia. Da casa, ossia da casa della mia nonna, avevo portato i condimenti bell’e pronti, preparati da lei. Per il peso della valigia, avevo viaggiato in treno fino ad Amsterdam. Avevo anche una buona scorta di spezie artigianali per insaporire il pesce che pescavamo ogni giorno. Insomma mi ero fatto una fama. Stavo bene con i miei compagni: Sebastian Haugen, il nostro capitano, professionista del mare, norvegese; Jeremy Lennard, americano di Atlantic City, matematico, addetto alle carte nautiche, ai computer e alla comunicazione; i tre olandesi Tim Hemelsee, timoniere, biologo marino, Ruben Van der Haas, chimico e Fabian De Jong, geografo, ambedue questi ultimi provetti meccanici e motoristi; e i fratelli polacchi Adam e Teodor Jankowski, velisti di straordinarie capacità, in grado di ammansire il vento e le onde.
Nelle lunghe pause della giornata, leggevo il Milione di Marco Polo e La relazione del primo viaggio intorno al mondo di Antonio Pigafetta. I libri sono soggetti flessibili e assumono una personalità o un’altra a seconda dei luoghi dove vengono letti. Cosicché anche le cose più arzigogolate di quei racconti sembravano plausibili per effetto delle circostanze in cui mi trovavo.
A sera, durante e dopo la cena, largo alle conversazioni. Non mancavano gli argomenti, ma l’argomento della missione era il comun denominatore di tutti gli altri: il Trashworld, il mondo spazzatura, come lo definiva Jeremy, il più loquace e il più rapido nell’impossessarsi della bottiglia di whisky, che bisognava sottrargli con qualche stratagemma per ottenere qualche rapido bicchierino.
– L’uomo è sempre stato ed è un dirty animal, un animale sporco, e si può fare la storia di questo sua carattere costante – argomentava una sera Jeremy tra un sorsetto e l’altro. – Il salto essenziale è quando si passa dal dirty man alla dirty society. Pochi ci pensano, ma il system of dirtiness si consolida con un processo di igienizzazione del mondo. Esso è hygienically mediated. L’indiano delle campagne beve l’acqua nel bicchiere di plastica e non nelle sue mani sudice; mangia in un piatto di plastica e forse si lava i denti con lo spazzolino. Non lo fa solo lui ma milioni di altri individui in Africa, in America in Asia. Pensate quanta plastica ‘igienica’ producono. E pensate a quella degli ospedali.
– Ma non è detto che si debba buttare tutto a mare… – obiettai.
– Se non si buttano nel mare, si buttano sulla terra, continuò Jeremy. – Lasciamo perdere per un momento i nostri rifiuti quotidiani. L’igiene del mondo è cresciuta e sono cresciuti parallelamente i rifiuti. È una contraddizione che spesso viene ignorata; appena si affaccia qualche forma di benessere, in primo luogo come salute fisica, crescono i rifiuti.
– La trash society prevede anche – intervenne Fabian – recupero e riciclaggio. Attività che fervono soprattutto nelle grandi discariche di tanti paesi poveri: Bordo Poniente, nella periferia orientale di Città del Messico; Agbogbloshie, nella periferia di Accra nel Ghana; Hazaribagh, nel cuore di Dhaka, capitale del Bangladesh. Solo per citarne alcune. Nei paesi sviluppati, ci sono forme ‘avanzate’ di trattamento dei rifiuti: ovviamente costose, sia in termini di salute collettiva che di risorse pubbliche. Da questo punto di vista, ha ragione Milton Friedman, There ain’t no such thing as a free lunch, non esistono pasti gratis. Tutto si paga, sebbene in diversi modi.
– Non vi risulta che, come diceva Marx, l’uomo non si pone se non problemi che può risolvere? – dissi un po’ sfrontatamente.
– Credo che sia vero, ma ha anche ragione Ulrich Beck, quando afferma che non esiste una modernità senza rischio – osservò Tim. – Un problema può avere mille soluzioni, ma non c’è soluzione che non crei nuovi problemi. Noi non avremo mai i mezzi per ripulire il mare o per impedire l’inquinamento. Ma siamo noi che manteniamo accesa la living flame della coscienza mondiale. Non siamo inutili; ma si tratta di processi di lunga durata.
Adam e Teodor giocavano a scacchi, e annuivano.
– Naturalmente – intervenne Ruben – molte cose si possono fare rather quickly. Il rifiuto dei rifiuti non può essere astratto ma concreto. Si può moderare il packing alla produzione, si può moderare al consumo. Dobbiamo lavorare per una morale della produzione e del consumo; e per una nuova educazione soprattutto dei ricchi. E per un mercato diverso; ricordiamoci anche che slow food significa anche lighter packing!
Nella piccola cabina che condividevo con Tim Hemelsee, la mia viola mi offrì una via di uscita temporanea da quel labirinto mentale; mi tesero la mano Bach con la siciliana dalla sonata per flauto e Benedetto Marcello con due adagi dai concerti grossi. Poi riposi lo strumento, per ascoltare Fabian De Jong che, una cabina più in là, metteva letteralmente le ali al suo virginale inglese con allegri e gravi di Byrd, Vivaldi e Scarlatti. Anche il mare suonava la sua musica, sorvegliato da Sebastian Haugen, in silenzio nella sera senza luci.
Avevamo ormai alle nostre spalle l’isola di Sant’Elena e, davanti, alla nostra destra, non molto distante l’arcipelago Tristan da Cunha.
Nelle brume del mattino dell’ultimo giorno di agosto sulla chiglia della nave cominciarono letteralmente a bussare molte mani contemporaneamente, in maniera lieve o più sorda e pesante.
Ci svegliammo; eravamo circondati. Eravamo arrivati alla meta vagabonda del nostro cammino sull’oceano. Il South Atlantic Garbage Patch era lì intorno a noi e forse ci era venuto incontro. Tutto l’orizzonte, da tutti i punti cardinali, era ricoperto di una massa informe e agitata di detriti di ogni tipo: miriadi di bottiglie di plastica, rottami di mobili, bidoni neri, contenitori di ogni tipo, involucri di polistirolo, indumenti, gomme d’autocarri, scarpe, stivali, e, insieme, sagome rigonfie di pesci immobili e uccelli morti galleggianti. Un orrore senza scampo.
Ci volle un po’ di tempo per mettermi in moto e passare in rassegna con la videocamera l’inferno venuto a coprire la superficie del mare. Non si capiva quanto fosse grande, ma era grandissimo. Per giorni furono effettuate misurazioni chimiche e rilevamenti di ogni tipo. La missione era riuscita e i dati vennero comunicati alla sede centrale dell’organizzazione per i riscontri del caso. Poi chiedemmo a Sebastian di uscire al più presto da quella tortura. Il battello fece rotta a sud verso Capetown. Solo dopo molte ore, quelle mani cessarono lentamente di bussare alla chiglia del battello e tutto tornò al brusio sincopato delle onde Ma erano mani e anche bocche di cose che avevano parlato a uomini, e continuavano a parlare nella lunga agonia dell’abbandono oceanico. I rifiuti hanno la loro lingua, anzi sono un linguaggio. Mi ricordai di quello che mi ripeteva mio padre quando lasciavo le scarpe una di qua e una di là o mettevo a tavola il pane capovolto: anche le cose hanno un’anima. Di latta, di vetro, di plastica, di qualsiasi materiale che sgorga dal pianeta terra. Deperibile, non deperibile come la nostra. Esiste la teologia degli uomini, esiste la teologia delle cose. Et omnia vanitas.
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