Nulla è più cogente e paradossalmente sfuggente dell’immagine del Mediterraneo, di un mare che non è soltanto un mare perché nessun altro spazio geografico è probabilmente più denso di storia e di retoriche, di letteratura e di stereotipi, di miti e di contraddizioni. Polisemico e policentrico, nel passaggio da aggettivo a sostantivo, il Mediterraneo si è caricato di una pluralità di segni e di simboli, di sguardi esotici, di investimenti estetici e di tesi ideologiche. Sia esso alternativo alla modernità atlantica, metafora del pensiero meridiano, sia rappresentato come fronte dell’arretratezza e della subalternità ovvero laboratorio di nuovi rinascimenti e argine del locale contro l’omologazione al globale, il Mediterraneo è, al di là di ogni costrutto culturale, lo spazio elettivo di transiti e di transumanze, di esili e di asili, di nomadismi e movimenti umani. Ieri come oggi. Non un luogo comune ma se mai un luogo in comune. Un luogo in cui sembrano sfumare le appartenenze e mescolarsi le vecchie carte delle identità nazionali in un bricolage che descrive una rete ordita da mille fili, un patchwork screziato e cangiante.
Se c’è un dato connotativo e distintivo, un fattore strutturale e strutturante che identifica nei tempi lunghi della storia l’ecosistema mediterraneo è da ricercare nelle forme pluridirezionali e plurisecolari delle migrazioni, in quella trama di connettività umane e culturali che ha tenuto insieme nord e sud, est e ovest delle rive di questo continente liquido, incastonato tra tre continenti. Crocevia antichissimo, in cui – come ha scritto Braudel – «da millenni tutto vi confluisce, complicandone e arricchendone la storia», cuore del Vecchio Mondo, il bacino del Mediterraneo è da sempre luogo di circolazione degli uomini e dei beni, delle tecniche e dei simboli, delle religioni e delle lingue.
Che le dinamiche migratorie siano strumenti conduttori, costitutivi e fondanti, della fenomenologia dei rapporti e degli scambi culturali è in tutta evidenza dimostrato dai fatti della storia mediterranea che per ogni evento di guerra o di conflittualità, per ogni episodio di tensione e di attrito, per ogni atto di violenza coloniale, ha comunque prodotto trattati commerciali, imprese di cooperazione economica, matrimoni misti e comunità multietniche. «Mare per eccellenza – per usare le parole di Cacciari – l’archi-pélagos, il luogo della relazione, del dialogo, del confronto tra le molteplici isole che lo abitano: tutte dal Mare distinte e tutte dal Mare intrecciate; tutte dal Mare nutrite e tutte nel Mare arrischiate».
Fitto reticolo di differenze più che mera sovrapposizione di somiglianze, la supposta identità del Mediterraneo probabilmente consiste proprio nell’esser costitutivamente non identica a se stessa, e la sua unità sarebbe data non solo dalla centralità e prossimità geografica ma anche e soprattutto dagli esiti delle traversate e dei contatti, dall’articolarsi e disarticolarsi delle negoziazioni e delle contaminazioni, dagli incontri tra gli uomini prima ancora che tra le civiltà, da quella incessante mobilità che nei modi di una globalizzazione ante litteram ha descritto una formidabile circolarità di traiettorie e di rotte, ha attraversato in profondità le acque di questo mare interno e ha segnato le vite individuali e i destini di città e collettività.
Drammatica diaspora o coraggiosa avventura, via di fuga o passaggio frontaliero, trasferimento familiare o ricerca personale di fortuna, le migrazioni nel Mediterraneo sono per loro natura esperienze transcontinentali, processi di costruzione di nodi e di ponti che legano il paese di partenza e quello di arrivo, i diversi luoghi delle rive opposte in un intreccio mutevole di percorsi e di rotte, di connessioni e di network. Più che alle nazioni, a guardar bene, i migranti sentono di appartenere alle città, alle singole comunità di origine e di insediamento che, pur distinti e distanti nello spazio, attraverso di loro si relazionano, si strutturano, si saldano. Da qui la formazione di identità miste, quelle comunemente definite col trattino, che hanno accompagnato le vicende migratorie di non poche popolazione mediterranee.
La verità è che le migrazioni, in quanto eventi endemici e connaturati nella storia degli uomini, sono fatti sociali totali e hanno il potere epifanico di portare in superficie quanto matura e si agita nel profondo delle società, sia di quelle di origine che di quelle di arrivo, essendo vettori rivelatori e catalizzatori delle loro pulsioni, contraddizioni, aspirazioni. L’intuizione di Marx, secondo il quale gli uomini fanno la storia ma non sanno di farla, può forse risolversi nel processo carsico messo in moto da una oggettiva forza centripeta volta a determinare le spinte di accelerazione e di trasformazione, la mobilità dei popoli, le grandi migrazioni che altro non sono che una componente essenziale e strutturale del ricambio demografico, sociale, economico e antropologico dell’umanità. Una forza non meccanica né deterministica, non estranea certo alla volontà degli uomini, ma ad essa complementare e agente irriflessa, fattore propulsivo e moltiplicatore di tendenze e influenze.
Quanto sta accadendo nel Mediterraneo, oggi tornato ad essere epicentro gravitazionale della storia mondiale, è l’esito drammatico della rovinosa implosione degli equilibri geopolitici, effetto perverso della globalizzazione ma anche conseguenza della negazione e della torsione della lunga tradizione transfrontaliera di libera circolazione degli uomini come dei beni materiali e immateriali. In questo mare, da sempre attraversato da corsari e da crociati, da pirati e da schiavi, da coloni e da naviganti, da pellegrini e da commercianti, tensioni e guerre non hanno mai fermato quel movimento umano che ne ha per secoli avvicinato le sponde.
Nel tempo greve e confuso che stiamo vivendo il Mediterraneo sembra essersi trasformato in un tragico teatro in cui si rappresenta lo scenario dei confini e delle frontiere nel cuore di una nuova guerra fredda tra il Nord e il Sud del mondo. Il mare nostrum rischia di diventare un mare monstrum. Mentre l’Europa balbetta e si divide, si consuma la più grande tragedia umanitaria dal dopoguerra ad oggi. Un crimine senza nome. Una deportazione invisibile e inenarrabile. Un genocidio di desaparecidos. Nella trincea scavata dal vecchio continente a protezione della Fortezza, precipitano nel buio dei fondali come in un’oscura foiba migliaia di profughi che tentano la traversata. Nel mondo capovolto che abitiamo si fa la guerra ai migranti che fuggono dalle guerre piuttosto che combattere le cause che generano guerre, povertà e migrazioni.
Ma in questo mare antico e sempre nuovo, in cui tutto è accaduto, anche quello che deve ancora accadere, frontiere porose e confini di ferro sono destinati ad essere perennemente sfidati, attraversati, scavalcati. Perché qui è cominciata la storia delle civiltà e da qui passa ancora il destino dell’umanità. Qui si sono incontrati Oriente e Occidente, ebrei, cristiani e musulmani, e qui sono costretti a dialogare Nord e Sud del mondo, tra aspre conflittualità e civili urbanità, dispiegando e incrociando dialetticamente emigrazione e immigrazione, le memorie del passato e i nomadismi del presente, gli Ulisse di ieri e di oggi. Orizzonti incrociati di flussi e riflussi ininterrotti tra sponda e sponda, di viaggi e di peregrinazioni, di fughe e di umane speranze.
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