Ho letto con interesse l’articolo di Giovanni Commare dal titolo “Il passato che non passa” pubblicato sul numero 128 del “Grandevetro” che racconta e commenta l’evento del 13 ottobre 2017 presso il teatro della Misericordia di Vinci in cui Agnese Moro e Adriana Faranda parlano di se stesse e del percorso che le ha portate, insieme ad altri, all’esperienza che ha poi dato vita alla pubblicazione de “Il libro dell’incontro” a cura del padre gesuita Guido Bertagna.
Mi ha immediatamente colpito l’articolo di Commare perché dopo le prime parole di introduzione è passato, con un blando tono compiaciuto, a quello che potrebbe sembrare un dettaglio, ovvero la definizione del soggetto da cui il convegno aveva origine, cioè Aldo Moro, e al fatto che Agnese Moro (figlia) lo definisse “mio padre” e Adriana Faranda “il suo papà”.
Anch’io ero là, quella sera, e anch’io come Commare sono stata colpita dall’uso continuativo e certamente non casuale di questa angolare identificazione del personaggio al punto che su questa indubbiamente marginale questione mi sono, successivamente, a lungo attardata nel tentativo di mitigare un disagio al quale faticavo a dare un nome salvo, alla fine, dirmi che se le due donne se lo potevano permettere (ed evidentemente se lo potevano permettere e questo era apparso chiaro subito a tutta la platea) se potevano anche rivolgersi l’un l’altra con un tono che se non si può definire confidenziale certamente scherzoso sì (come quando Agnese, scherzosamente appunto, si sofferma sul fisico asciutto di Adriana e la appella con quel termine alla moda sulla bocca dei ragazzi e che vuol dire di bell’aspetto… e le due donne ridono e la platea con loro …) se si potevano permettere di evitare di chiamare l’on. Moro con il suo nome, beh, forse è giusto e opportuno che lo facessero.
Per se stesse comunque, perché per noi Aldo Moro non è il papà di Agnese o, almeno, non solo.
Quel giorno, invitata da Silvano Guerrini organizzatore dell’evento, avevo deciso di concedermi una giornata a Vinci e nella sua bella campagna scorrazzando per il museo dedicato a Leonardo per poi, a fine pomeriggio, prendere alloggio presso l’albergo dove avrei trascorso la notte dopo aver assistito a quell’evento sul Libro dell’Incontro e dove, vista la distanza dal mio luogo di residenza, avevo deciso di trascorrere la notte per poi la mattina rimettermi in cammino.
E così presi possesso della mia camera e quando scesi per andare a cena, prima dell’evento previsto per le 21, incontrai seduti nella hall la signora Moro, la signora Faranda, Padre Bertagna anch’essi in attesa della cena, e prontamente fui loro presentata da Guerrini.
Breve conversazione, molto formale. La proprietaria dell’albergo che ci chiede una foto di gruppo, io che cerco di mettermi da parte dichiarando la mia estraneità ma che vengo tirata dentro mio malgrado … il clic … e la foto è fatta, ancora qualche battuta cordiale e usciamo, un saluto, una stretta di mano e ciascuno per la sua cena con la promessa di rivederci dopo, in teatro.
Là, davanti ad una platea stracolma di persone, sul palco le due donne e il padre gesuita che raccontano attraverso quali meccanismi della sopravvivenza vittime e carnefici possono provare e trovare una sintesi che permetta loro di continuare a vivere dando alla propria esistenza un indirizzo diverso.
Sì, è vero, Agnese fa il paragone dell’elastico che rende molto bene: sentirsi per una vita (la parte centrale della vita, quella in cui si imposta e si impasta tutto) come un elastico che attraverso sforzi immani si tende e si tende ancora alla ricerca di uno spazio di normalità per poi, raggiunta la tensione massima ritornare al punto di partenza, sempre quello, sempre lì, senza scampo.
Sì, come non comprendere il bisogno di uscire dal giogo dell’elastico? E credo che quella platea, come tutte le platee di questi nove anni di sforzi, comprenda benissimo. Anche la signora Faranda avrà avuto un suo elastico personale da disattivare, come non immaginarlo, come non crederci?
Mentre ascoltavo ripensavo a me nel ’78. Abbiamo più o meno la stessa età, Adriana, Agnese ed io. Io avevo 25 anni nel 1978 e una figlia di due.
E avevo 23 anni nel 1976 in quel lunedì 21 giugno (e quella stessa figlia aveva pochi mesi) e ci volle una nube nera di fumo che proveniva dalla cucina per scuoterci dall’euforia dei primi risultati delle elezioni politiche, quando cominciavamo a pensare che il PCI potesse sorpassare la DC.
Il coperchio del bollitore dei biberon, che avevamo dimenticato a sterilizzare sul fornello acceso, esaurita l’acqua si stava sciogliendo…
Il PCI stava per sorpassare la DC!!! Altro che bollitore e biberon liquefatti!
E dov’era Adriana quella notte? E Agnese? Tre giovani donne. Tre vite potenzialmente simili ma così lontane: Adriana stava probabilmente interpretando quel momento come la vittoria di quello che all’epoca veniva chiamato revisionismo e non doveva esserne felice, anzi probabilmente la tensione all’interno del suo gruppo si stava già manifestando con la necessità di dare un segno, una reazione.
Agnese probabilmente stava vicino al padre che, preoccupato, valutava un sorpasso del Partito Comunista che avrebbe rappresentato un evento epocale dalle conseguenze politiche catastrofiche, almeno dal suo punto di vista.
Io esultavo e speravo. Speravo perché da quando ero nata avevo ascoltato tanti racconti attorno alla tavola di quella famiglia di comunisti dov’ero nata, col nonno ragazzo del ’99 (poi Cavaliere di Vittorio Veneto…ODDIO!) disposto a raccontare la paure dei ragazzi come lui dentro le trincee (anche se solo dopo qualche bicchiere di vino); fuochista dell’ospedale di Careggi senza lavoro perché senza la tessera del fascio; mio padre che aveva scelto a diciannove anni di andare partigiano sui monti piuttosto che arruolato nell’esercito di Salò e che spesso litigava col nonno davanti alle notizie del Giornale Radio perché in casa mia tutti discutevano con tutti, sempre dicendo le stesse cose.
Sperai a lungo, quella notte del 21 giugno, e poi mi fermai perché il sorpasso non c’era stato e ci parve che le cose non potessero cambiare, non in quel momento almeno.
Ma certo la politica non è solo quello che sembra essere uscito dalle urne ma è soprattutto quello che sembra possa essere fatto, dopo aver capito cosa è uscito dalle urne. Nei due anni che seguirono accaddero molte cose.
Quella mattina del 16 marzo (era un giovedì) l’On. Moro stava andando alla Camera dei Deputati dove era previsto il voto di fiducia per il quarto governo Andreotti che avrebbe visto per la prima volta il sostegno del Partito Comunista, operazione complessa fortemente voluta da Aldo Moro e da Enrico Berlinguer che, se pure a due anni di distanza dallo scampato incendio della mia cucina, apriva prospettive mature e realizzabili e certamente avrebbe rappresentato un cambiamento di tutte le nostre vite. In bene? In male? Lo avremmo visto poi. Ma il cambiamento era storico, come il compromesso che stava prendendo forma.
L’agguato di via Fani quanto ha depredato il popolo italiano del suo diritto a determinarsi a scegliere, a scovare vie, tortuose quanto vogliamo, a costruirsi su un progetto, anche parzialmente condiviso, a immaginarci società in evoluzione, in sperimentazione, in confronto?
Ecco, è sempre interessante seguire i moti dell’anima di chiunque e sicuramente la vittima e il suo carnefice di moti e tormenti ne hanno in abbondanza. È sempre estremamente coinvolgente seguire i meccanismi mentali di due soggetti così incompatibili che costruiscono l’idea della “giustizia ripartiva”, tentando di ricostruire su di essa le loro esistenze disassate. E la cronaca di quelle testimonianze che dal palcoscenico arrivavano alla platea non possono che avvincere e talvolta commuovere.
Acquistai anch’io Il Libro dell’Incontro che mi ripromettevo di leggere con interesse, cosa che feci subito appena rientrata nella mia stanza d’albergo. Tutto molto interessante, d’accordo, e noi? Che ruolo abbiamo noi? Noi, il popolo al quale qualcuno ha deciso di sottrarre il diritto di scegliere e che invece aveva scelto, che si era espresso. Noi non abbiamo visto i nostri padri, i nostri mariti o i nostri figli massacrati in via Fani e poi avanti tra tormenti inauditi fino alla Renault rossa … noi non siamo quelli. Costoro hanno diritto a ricomporre le proprie esistenze attraverso qualunque espediente, anche quello cristiano del perdono se serve loro. Hanno diritto a tentare di andare avanti, è vero, di stare meglio. Hanno diritto a intraprendere una via che possa affrancarli dall’odio, è vero. Ma noi? Noi siamo quelli che non hanno bisogno di perdonare, né tantomeno smettere di odiare (abbiamo mai odiato?) o addirittura amare (chi?) comprendere forse, ma perdonare no, amare no. Noi siamo quelli a cui è stato tolto il futuro, quello che ci eravamo scelti e per noi Aldo Moro non è il papà di Agnese.
Noi non dobbiamo perdonare, noi non dobbiamo imparare ad amare i nostri nemici per sopravvivere.
Se Agnese aveva il diritto di stare meglio (e lo aveva), se Adriana sentiva il bisogno di riflettersi sul volto delle persone che aveva così martoriato per poter chiamare “responsabilità” una colpa, noi che ci siamo visti derubare del futuro che ci eravamo scelti, per noi c’è uno specchio?
Certamente non quello di Vinci del 13 ottobre scorso, quello è uno specchio che non ci riguarda.
E se, come ricorda Commare, Fioroni presidente della Commissione sul Caso Moro dichiara oggi che probabilmente non si è voluto mai chiarire fino in fondo tutta la vicenda e che gli elementi emersi implicano oggi presenze inquietanti non ancora emerse; se è innegabile che il popolo italiano stia ancora aspettando e che al di là dei legittimi moti dell’anima, dei percorsi di riappacificazione e pentimento degli ex brigatisti debbano essere proprio questi a fornire tutti gli elementi di verità ancora in loro possesso, è altrettanto vero che non possiamo accettare di assistere a ricostruzioni che prevedono l’intervista agli ex brigatisti, quelli che riflettono dallo studio della loro abitazione o da una soleggiata panchina di un parco pubblico all’ombra dei benefici della Legge Gozzini e che, trasformati in politologi, storici, sociologi ci parlano di scontri sociali e raccontano, interpretano, analizzano. Assistiamo ad un Mario Moretti che dopo aver scontato 13 anni dei suoi 6 ergastoli viene invitato a fare lezione di storia, politica, sociologia (e magari anche di morale) a studenti di una scuola pubblica di giornalismo. Gente che, per parafrasare la Balzerani, dell’omicidio e dell’eversione ha fatto un mestiere, riconosciuto, stimato e rispettato.
Tuttavia Noi dobbiamo anche riflettere su altre considerazioni: quei giovani arroganti e velleitari che in preda ad un delirio di potere e ignoranza si arrogarono il diritto di considerarsi eredi della guerra partigiana, chiamando le loro azioni terroristiche guerriglia, se non addirittura guerra, convinti di poter creare, con i loro attacchi slegati da ogni rapporto con il popolo, le condizioni per un capovolgimento a cui sarebbe seguito qualcosa che non solo non avevano valutato ma che avevano scientemente deciso di non valutare, questi giovani non sono stati soli in questo devastante delirio.
Gli ex partigiani che, agli albori della visionaria impresa, hanno dissotterrato le armi che erano state trafugate quando andavano deposte e le hanno offerte a questi improvvisati “combattenti”, coloro che all’interno della sinistra e del sindacato li definirono ” I compagni che sbagliano”, salvo poi correre a far loro terra bruciata attorno quando, molti anni dopo, la furia si scatenava su un Guido Rossa e su tutta la classe operaia che non rispondeva, costoro quanta responsabilità hanno per aver continuato a parlare almeno per un ventennio, dopo la promulgazione della Costituzione, di “dittatura del proletariato”, quando proprio quella Costituzione alla cui stesura essi avevano tanto onorevolmente partecipato all’art. 42 sancisce che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge”?
Oggi, mentre non avvertiamo alcuna corale pretesa di far luce sulle responsabilità occulte che hanno approfittato di quell’opportuno delirio, siamo costretti ad assistere non solo alle scandalose dichiarazioni di una Balzerani spalleggiata da certe discutibili associazioni “di libero e alternativo pensiero” ma anche alle analisi arroganti di coloro che avrebbero dato, che avrebbero pareggiato i conti che avrebbero pagato il debito con la società e della cui presenza non solo YouTube straborda ma anche le indagini giornalistiche su accreditati media sono ghiotte e ancora una volta nessuna voce che si scandalizza e grida al sopruso.
La rete straborda di queste interviste, e l’editoria di editori disposti a pubblicare le loro memorie e i loro romanzi, ma se la rete non si può fermare forse l’etica imporrebbe che giornalismo e editoria si autoregolamentassero nell’uso di simili testimonianze. Da cittadina espropriata del diritto a determinare la mia vita pretendo che costoro abbiano voce solo all’interno di indagini che chiarissero e ci restituissero finalmente le giuste letture delle loro connessioni con malavita, servizi segreti, P2 e infiltrati di ogni provenienza nel tentativo di restituire prima o poi alla storia, quella vera, la cronaca di queste vicende da giallo internazionale.
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