Erano giorni, anzi mesi che me lo diceva. Dovevo essere un po’ trendy, e non comme chille quattro smargiasse che s’atteggiano a chissà chi. Così lo scorso week-end ho deciso di farle una sorpresa, a questa mia mogliettina così cara. E poiché, come diceva il nonno di qualcuno, a be’ e be’ ’un sa mai sete, sono andato all’outlet per una giornata di shopping, anche perché le tanto pubblicizzate new opening di griffe famose avevano fatto più insistente il mio senso di colpa. Faceva caldo, ma la location dell’outlet è a mezza collina, ventilata al giusto.
Varcata la gigantesca insegna di welcome e appena uscito dal parking, uno mi ferma e mi fa: «Che, me lo dice che vole significa’?» e m’addita un cartello con su scritto “Vietato al transito veicolare”. Allora gli spiego che di là le auto non possono passa’. E mi dirigo al primo bar, con il timore alquanto stupido, lo confesso, che, data l’ora presta, fosse ancora chiuso. Ma sulla porta c’era l’avviso “Open” e così il break-fast era salvo. Alla cassa il ticket non è stato proprio della misura, ma tant’è. All’uscita un mastino a guinzaglio teso mi s’è messo ad abbaiare contro, roba che uno, a dirla col grande Teofilo Folengo (una citazione classica nobilita sempre il discorso) “sibi cagat addossum”. E allora subito so’ annato alla toilette, ma solo per quattro gocce che mi premevano la vescica.
E finalmente eccomi a transumare da una vetrina all’altra, tutte con tanto di sale (…sì, insomma, lo sconto) a sfruguliare i desideri e la credit card. Mamma, quanta roba c’era! Ma come si fa, come si fa a resistere? Eppure io resistevo, resistevo. Ma è stato proprio così che m’è scoppiato il mio solito mal di testa. “Per aspera ad astra” come si dice, e così mi sono aggrappato alla mia solita aspirina. Eh già, à la guerre comme à la guerre. Mezz’ora su una panchina e di nuovo in sesto. Intanto la movida era entrata nel pieno.
Sono entrato nel regno delle polo. Roba da non credere. E il bello è che su ogni scaffale c’era l’address specifico cui spedire l’email di reclamo o il like da follower. Per qualche minuto sono stato out di testa. Poi ho cominciato a realizzare e in un quarto d’ora sono uscito con cinque polo nel borsone. Ma il bello doveva ancora venire. Eccola là la maison delle giacche più giacche che ci sono. Solo che uno, con faccia implorante, mi mostra il gelato che gli è colato sulla maglia e mi fa: «Scusi, ma che ce l’ha un cencino?». «’Un c’ho un cencio» gli fo e varco il paradiso delle fashion.
Cosa non c’era! Roba che manco il principe dei principi riesce a sognarsi. E in fondo tanti separé a garanzia della privacy dei clienti. Alla cassa mi sono diretto, non so neppure io come, con tre giacche tutte made in Italy e la master card pronta tra pollice e indice. Ma ho dovuto mettermi in fila. Erano in sette prima di me, sette coppie, e tutt’e sette a ciarlare a tono piuttosto alto, e chi diceva non so che in una specie di americano, chi in francese, chi in cinese, chi in un nordico pieno di crisi di gola. Non si capiva una beata minchia. Ed è stato a quel punto che m’è venuto come un flash a darmi l’happiness di essere italiano e di parlare in una lingua sciolta e politically correct che tutti possono capire.
Ah l’italiano! Mi ricordo adesso di quando, anni fa, pieno di liberté egalité e fraternité, decisi di starmene un mese a Paris. E non parlavo e non afferravo il francese! Così, a necessità, parlavo e domandavo e chiedevo in italiano. E tutti a fare finta di non intendermi. Ma dai loro occhi traspariva che gli era tutto chiaro. Ma i francesi sono snob, si sa, e se non traspiri eau de toilette per loro sei meno di un chip.
Ma, insomma, poi alla cassa ci sono arrivato, e anche all’uscita. Ero ingolfato di pacchi. E allora, prima di proseguire, sono tornato alla voiture e ho lasciato tutto sul posteriore. E nel riprendere la via non vado a urtare uno che di pacchi ne aveva fino agli occhi e non vedeva una sega? Con voce roca e incazzata m’ha invitato a dar via er chiù. Io ho sorriso e l’ho salutato col ditus immodicus.
Proprio in quel momento mi squilla lo smartphone. Era lei, lei, la mia consorte, prossima al briefing della sede commerciale dove lavora. «Che fai?» mi fa. E io: «Surprise. Stasera tel dico». E m’è venuto il pensiero di comprare anche per lei. Così mi sono rifilato nei boulevard dell’outlet, non senza prima, però, infilarmi in uno dei ristorantini tutti rileccati della zona. Non c’era più tavolo libero. E con me altre persone a cercare un posto. C’era solo un buco per sei e così ci siamo detti che si poteva stare tutti insieme.
Il bello è venuto dopo le ordinazioni, quando il cameriere è venuto a portarci i piatti. Non ce n’era uno in linea con quanto richiesto. Ognuno s’è rassegnato, per non fare casino. Ma poi, alle spalle del garçon, sono cominciate le mormorazioni. «Quel cameriere è un saiòt» fa uno. E continua: «A fa di mestier che no s’s’èbù a l’ve lòng la barba». E un altro, di rimando: «A sto mond al val miga a esga, ma’l vel a saìga stà». E il barbuto che s’era messo in fondo, a un capotavola, scuotendo la testa, smozzica: «Pisèr còuntra vèint è un lavor ch’in s’au mài da fèr. Eh, la tèra l’è basa». E la donna, l’unica del gruppo, gli fa a sostegno: «Al gat inguantà an ciapa brisa puntag». Allora anche il giovane alla mia destra non riesce a trattenersi, e fa: «Qàanne u vove non vole arà tutte le sscìue uge pàrne stèrte». «Va ‘bbuò», allora concilia quello a sinistra «lasciamme sta’ e magnamme».
In quel mentre, alla TV, in alto, di lato, visibile a tutti, quella del TG sboccava di Porcellum, Mattarellum, Rosatellum, uninominale, plurinominale, insomma di quella roba lì. E i miei commensali a guardarsi, farsi le smorfie, biascicare: «Ma che è? Che dice?». Eh sì, ci sarebbe voluta mia moglie, con la sua napoletanità sempre schietta. «Guaglio’- avrebbe detto – la lingua è lingua e c’è poco da pazzia’!».
Benedetta ignoranza della community! E al mio stand up e saluto con la mano, rimuginavo che ben pochi ormai sono in grado di seguire le diatribe dei nostri politici bustrofedici (nota esplicativa: dicesi “bustrofedica” antica scrittura che a un rigo andava da sinistra a destra, al rigo successivo da destra a sinistra, e poi da sinistra e poi da destra e così via). Ma, pensando e ripensando, non vado a imbattermi nel low cost d’una rara vetrina di vintage? Ecco, ecco lo show-room per mia moglie.
Ci sono entrato d’istinto, ancor più affascinato, là dentro, dai sorrisi friendly delle commesse. Altro che fake news di quelli che chattano che qui, all’outlet, è solo tutto réclame e slogan di haute couture. Lì c’era di tutto. Mia moglie ne sarebbe stata stordita per una settimana. Così, pensando a lei e ai suoi gusti, ho messo in cesta un bel po’ di roba. Stavo per guadagnare la cassa quando che ti scorgo di lato? Non c’era anche un reparto di underwear? di quella stoffina tutta plissé che ti trasforma la casa in una garçonnière d’altri tempi? Ovviamente si fa per dire e honni soit qui mal y pense!
Alla cassa c’era la solita coda di persone da tutte le parti del mondo, che incrociavano le cadenze le più strane e diverse. E m’è venuta una sorta d’orgoglio d’essere italiano e parlare una lingua che ci unifica tutti, dalle Alpi all’Etna, ma che soprattutto attrae tutti gli abitanti del pianeta. Viva, viva l’italiano.
(Il Grandevetro 128, inverno 2017)
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